Una situazione che crea paura e tensione, il battito cardiaco accelerato, il ritmo respiratorio e la sudorazione che aumentano, l’impressione di perdere i sensi.
I pensieri che si fanno minacciosi, come a dire che sta accadendo qualcosa che non si riesce a gestire (“Non respiro”, “E se mi sento male?”, “Mi sta venendo un infarto?”).
La preoccupazione aumenta, le sensazioni corporee si fanno sempre più forti, fino a portare all’attacco di panico.
Secondo il modello del Circolo vizioso del panico (Clark, 1986 – Modificato da Wells, 1997) alla base c’è uno stimolo scatenante esterno o interno che viene percepito come minaccioso e che attiva le sensazioni somatiche del panico.
Seguono poi una serie di pensieri che alimentano le sensazioni corporee, dando vita a una circolo che sembra non riuscire ad interrompersi.
La persona ha la sensazione che le cose attorno a lei le sfuggano e tenta in ogni modo di controllarle.
L’aspetto paradossale è che più una persona cerca di controllare le situazioni che la spaventano, più rimarrà in ascolto di alcuni parametri fisiologici (battito cardiaco, ritmo del respiro..).
E proprio il controllo dei parametri farà in modo che questi si altereranno, perché se ne altera la loro spontaneità.
In questi casi si parla di persone che “cadono nella trappola del controllo che fa perdere il controllo” (Nardone).
Ci sono inoltre due copioni comportamentali che solitamente vengono adottati da chi soffre di attacchi di panico:
-l’evitamento di alcune situazioni
-la richiesta di protezione
La persona tende a evitare le situazioni che vive come disturbanti, ma così facendo cresce la convinzione che siano impossibili da affrontare, fino a farle diventare ancor più minacciose.
La richiesta di protezione riguarda, invece, il bisogno di garantirsi la vicinanza di qualcuno, che conosca il malessere della persona e possa intervenire per sedarlo.
Questo con il tempo porta la persona che soffre di attacchi di panico a strutturare relazioni di dipendenza, basate sulla richiesta di aiuto, piuttosto che su una dinamica di scambio reciproco e parità.
Entrambi i comportamenti, quindi, fanno sì che la persona abbia sempre meno fiducia in sé e nella possibilità di farcela da sola.
Inoltre, spesso le persone che hanno attacchi di panico se ne vergognano, perché temono che questo malessere li faccia percepire agli altri come deboli.
Si innescano così ulteriori pensieri e valutazioni su di sé che rinforzano la sensazione di inadeguatezza.
E’ come se si innescassero una serie di meccanismi che la persona vorrebbe solo mettere a tacere.
Molto spesso a dare l’illusione di bloccare le reazioni di paura sono i farmaci. Alcuni possono aiutare a ridurre il malessere percepito, ma i farmaci, non associati a una psicoterapia, sono efficaci solo inizialmente.
Ancora una volta perché subentra il meccanismo del delegare il problema a qualcosa di esterno, proprio come accade quando si chiede la protezione di una persona vicina.
Per questi motivi è importante che sia la persona stessa ad affrontare quello che sta vivendo e a modificare i propri meccanismi di pensiero e di reazione ad alcune situazioni.
La terapia cognitivo-comportamentale si è rivelata uno dei trattamenti più efficaci, proprio perché non sono le situazioni in sé a scatenare gli attacchi di panico, ma il modo in cui le persone le interpretano.
Il trattamento prevede la sostituzione dei pensieri disfunzionali, che generano malessere, con pensieri più vicini alla realtà e che permettano di viverla in maniera più obiettiva e serena.
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